Italia & Estero
Gaza, tra armi congelate e condizioni politiche: il negoziato che decide il futuro
L’ultimo capitolo delle trattative tra Israele e Hamas mette sul tavolo un nodo centrale: la gestione dell’arsenale del movimento islamista e le condizioni politiche che potrebbero accompagnarne il possibile smobilizzo. Dopo settimane di confronti diplomatici e operativi, fonti vicine ai negoziati riferiscono che Hamas ha mostrato disponibilità a discutere il “congelamento o lo stoccaggio” delle proprie armi come elemento di un accordo di cessate il fuoco con Israele.
Si tratta però di una apertura condizionata: Hamas accetta di mettere in discussione il proprio armamento soltanto all’interno di un processo che porti alla creazione di uno Stato palestinese indipendente. È questa, secondo i portavoce del movimento, la garanzia politica versante imprescindibile perché qualsiasi trattativa sul disarmo non resti un mero fatto tecnico ma diventi parte di una soluzione a più largo respiro.
Un alto esponente di Hamas, Bassem Naim, ha inoltre difeso l’azione del 7 ottobre definendola un’“azione difensiva” e ribadendo il mantenimento, da parte del movimento, del diritto alla resistenza. Questa posizione chiarisce la distanza tra l’apertura sulla gestione materiale delle armi e la volontà politica di preservare un ruolo di opposizione armata fino a che non si realizzino i termini politici richiesti.
Sul fronte israeliano, la situazione è monitorata sia sul piano militare sia su quello della sicurezza interna. Ufficiali dell’esercito hanno effettuato sopralluoghi nella Striscia di Gaza in vista dell’avvio della cosiddetta “fase due” dell’accordo di cessate il fuoco, una fase che prevedrebbe, tra l’altro, il ritiro delle forze israeliane dalla cosiddetta “Linea Gialla” all’interno di Gaza. I controlli sul terreno servono a verificare le condizioni di sicurezza e a definire le modalità pratiche del ritiro e della supervisione congiunta, elementi essenziali per trasformare un’intesa verbale in misure effettive.
Parallelamente alle negoziazioni, l’intelligence israeliana ha portato alla luce operazioni finanziarie clandestine connesse al conflitto. L’esercito e il servizio di sicurezza Shin Bet avrebbero scoperto una rete segreta di cambio valute gestita da esponenti legati ad Hamas operante in Turchia, con presunti collegamenti alla direzione iraniana e finalità riconducibili al finanziamento di attività terroristiche. L’indagine mette in evidenza il nodo delle risorse economiche transnazionali come elemento decisivo nella capacità operativa dei gruppi armati.
Dal versante politico, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sottolineato l’esistenza di opportunità di pace e ha espresso la volontà di arrivare a un disarmo di Hamas e alla smilitarizzazione della Striscia di Gaza. L’intenzione di Tel Aviv è chiara: qualunque accordo dovrà includere garanzie che impediscano il riarmo e assicurino, sul lungo periodo, la sicurezza dei civili israeliani.
Il quadro che emerge è quindi complesso e segnato da condizioni reciproche difficilmente smontabili con un singolo accordo: la disponibilità di Hamas a discutere forme di sorveglianza e gestione dell’arsenale è accompagnata da richieste politiche forti, mentre Israele chiede controlli stringenti, verifiche sul terreno e misure contro le reti finanziarie che alimentano il conflitto.
Il successo di un’eventuale intesa dipenderà dalla capacità delle parti di tradurre aperture tattiche in impegni politici sostenibili, e dalla credibilità delle garanzie internazionali in grado di monitorare sia il congelamento degli armamenti sia i progressi verso una soluzione politica duratura. In assenza di queste condizioni, le questioni sul terreno — dai ritiri previsti nella “fase due” ai flussi finanziari scoperti in Turchia — rischiano di trasformarsi in elementi di nuovo attrito piuttosto che in pilastri di una pace consolidata.
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