Bolzano
Bolzano, ciclabile sì… ma col pugno di cemento
“Dopo il grande successo dell’inaugurazione…”, comincia trionfante il comunicato dei responsabili marketing del WaltherPark. Ma la retorica trionfalistica, in questo caso, suona come una beffa grigia e armata di calcestruzzo. A Bolzano, infatti, il nuovo ponte ciclabile e pedonale all’altezza del ponte Loreto, più che un simbolo di progresso, somiglia a un monumento al fallimento estetico e urbanistico.
Il commento più azzeccato? Quello dell’esperto di ciclabilità Patrick Kofler, che ha definito l’intervento “piuttosto brutale” e figlio di un’idea di mobilità ereditata direttamente dagli anni Sessanta. “Siamo nel 2025 e non più nel 1965”, ha tuonato. E ha ragione da vendere.
Come si può, nel pieno dell’emergenza climatica e del dibattito internazionale sulla qualità dello spazio pubblico, continuare a costruire infrastrutture che sembrano uscire dal manuale del perfetto urbanista automobilistico del secolo scorso? Il ponte, più che favorire l’integrazione tra utenti della strada, li isola: ciclisti da una parte, automobilisti dall’altra, ognuno nella sua “gabbia dorata”. Ma non è la sicurezza che ne guadagna, anzi. Kofler lo dice chiaramente: “La maggior parte degli incidenti non avviene sulla pista ciclabile stessa, ma dove i ciclisti escono dal sistema protetto”. E quindi? A che serve tutta quella separazione se il rischio si concentra proprio nei punti di contatto?
Eppure, l’apparato promozionale non ha dubbi: ci mostrano video patinati, politici in posa (Daniel Alfreider, Renzo Caramaschi) e tanto cemento, come se la quantità di materiale grigio potesse sostituire una visione urbanistica. Ma la sostanza è un’altra: sotto la crosta celebrativa c’è un progetto sbagliato, rigido, vecchio. Kofler lo dice con un certo garbo, ma è una condanna senza appello: “Bolzano si è infilata in un vicolo cieco”, e il ponte rappresenta la “cristallizzazione” di una scelta concettuale fallimentare.
E che dire del paragone con altre città? Mentre Bolzano si ostina nel separare i flussi (con risultati tutt’altro che entusiasmanti), altrove si sperimenta e si innova. Brescia, ad esempio, viene citata come esempio di conversione graduale verso un sistema di traffico misto. Ma a Bolzano no, si preferisce il brutalismo al pragmatismo, la separazione al dialogo tra utenti della strada.
È davvero questa la città che vogliamo? Una città che costruisce “ponti” che non uniscono, ma dividono? Una città che celebra la ciclabilità con cemento e incroci da mal di testa, e che chiama “futuro” ciò che somiglia più a un rigurgito del passato?
Kofler, con una punta di amarezza, chiude così: “Il percorso è bello, ma… avrei cercato soluzioni più naturali, con meno cemento e strutture meno brutali”. È un’ammissione gentile, ma inequivocabile: il grigiore del ponte di Loreto non è una questione di gusti, ma di visione. E Bolzano, in questo caso, ha perso l’orientamento.
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