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Benessere e Salute

Psicologia del terrorismo: perché ci ritroviamo nella “morsa dell’orrore”

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Dall’altro capo del mondo, una nazione tranquilla con un numero di abitanti pari a quello della capitale italiana viene sconvolta dalla ferocia di un attacco terroristico al quale pare faccia rapidamente eco una medesima sanguinosa risposta in Olanda.

Fazioni forse diverse ma con metodi e risultati terribilmente simili. Una spirale di sangue e terrore dove con l’uccisione di poveri innocenti scelti solo per quello che genericamente rappresentano, si è voluto mandare un messaggio di odio e inquietudine a sfregio di tutti quei valori che normalmente le persone ricercano: la quotidianità, l’aggregazione pacifica e la serena normalità.

Assistendo a questo genere di eventi sanguinosi si sarebbe portati a pensare che solamente dei disturbati psichici, sadici o psicopatici potrebbero imbracciare un arma e fare fuoco all’impazzata. Ma ad una analisi più accurata questa deduzione potrebbe essere non del tutto corretta.

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La rassicurante semplificazione per cui il terrorista è tale perché pazzo è stata infatti accantonata dai risultati di diverse ricerche di psicologia sociale, realizzate con rinnovato vigore dall’11 settembre 2001 in poi e che in sostanza confermano ciò che criminologia e psicologia forense avevano già ribadito riguardo la mancata correlazione diretta tra crimine e follia.

A livello statistico infatti la gran parte dei terroristi è persona con una salute mentale prevalentemente conservata e ciò è deducibile anche dalla pianificazione e dall’esecuzione di azioni complesse come quelle necessarie ad un attentato che, soprattutto se di vaste dimensioni, mal si accordano con la presenza in un soggetto di disturbi mentali in grado di alterare l’esame di realtà.

Certamente però la componente psicologica nel fenomeno del terrorismo è in generale molto forte, sia per determinare le cause che muovono gli attentatori, che per le conseguenze che generano nelle vittime e nell’intera società colpita che può assistere ad un incremento di vissuti di paura, angoscia, odio reattivo, inibizione sociale, intolleranza verso gli estranei o verso coloro che vengono percepiti come diversi.

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Ma allora come accade che un soggetto “normale” si trasforma in un terrorista? Le risposte possono essere diverse almeno quanto lo sono le storie di vita che gli attentatori portano con sé.

Volendo individuare alcune caratteristiche che accomunano il pensiero di questi soggetti, si può osservare una ricorrente disposizione alla rigidità di pensiero, diffidenza o odio per il diverso, mentalità chiusa, rifiuto per la società e legittimazione della violenza come modo di relazionarsi.

In una buona parte dei casi si tratta comunque di soggetti che hanno subito direttamente o indirettamente traumi riguardanti la morte e il ferimento di persone a loro care o la concreta minaccia di distruzione e rifiuto della loro identità economica, sociale o culturale e che hanno quindi sviluppato, a volte anche in seguito ad operazioni di indottrinamento psicologico esterno, la perversa convinzione di dare un senso alla propria vita e di riscattarsi dall’emarginazione fisica o psicologica attraverso la morte di altri soggetti e a volte persino la propria.

Queste esperienze di traumatico e aggressivo rifiuto, ovvero di trovarsi in una situazione in cui altri svalutano, aggrediscono ed emarginano una data identità, rischia quindi di provocare ira e desiderio di vendetta verso chi di volta in volta è ritenuto più o meno a ragione il “colpevole”.

A tale tipo di pericoloso ragionamento paiono particolarmente esposti i giovani, e gli immigrati di seconda generazione in particolare. Soggetti insomma con una identità ancora fragile ed in costruzione sono particolarmente attratti da logiche di questo tipo.

Sono infatti proprio i giovani uomini di età compresa tra i 20 ed i 30 anni, dotati di disciplina, propensione all’azione, rapidità di movimento, capacità di adattamento allo stress e con forti aspettative di un almeno simbolico riscatto, a costituire la manovalanza del terrore, di qualunque colore esso sia.

Soggetti soli, in cerca di un significato per la propria esistenza. Adescati, incentivati e preparati attraverso un Internet e dei social network che diventano loro malgrado parte integrante di un meccanismo del terrore entrano in contatto con piccoli gruppi creando legami affettivi centrati su esperienze di rifiuto e obbiettivi di rivincita comuni.

In questi spazi virtuali possono arrivare ad identificarsi totalmente con il pensiero del gruppo, regredendo ad un funzionamento psichico più rigido e primitivo, rischiando di distaccarsi progressivamente dalla realtà che li circonda, a favore di un atteggiamento più radicale, fanatico, aggressivo che può condurre fino a gesti estremi.

Pare quindi in sostanza che siano stimoli prevalentemente legati all’identità e alle emozioni, non tanto al calcolo razionale, a portare questi soggetti ad imbracciare un arma e a fare fuoco.

Rimane cosi verosimile che a livello di prevenzione e di contrasto al terrore sia necessario affiancare ad un aumento della strategia repressiva una operazione di diffusione di stimoli con valenza emotiva ed identitaria positiva, utile a convincere questi soggetti a non cercare una risposta nel terrore e nelle armi.

 

Il contributo per La Voce di Bolzano è del Dr Michele Piccolin, psicologo, perfezionato in psicologia e neuropsicologia forense, Perito e Consulente Tecnico per la Procura della Repubblica, per il Giudice di Pace e per il Tribunale Civile e Penale di Bolzano e Trento. Consigliere Ordine degli Psicologi della Provincia di Bolzano, Esperto del gruppo Alienazione parentale.it

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