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Primo maggio, il giorno dei lavoratori tra memoria, sangue e ideologia

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È una delle ricorrenze più celebrate al mondo, eppure pochi conoscono davvero le origini e le contraddizioni del Primo maggio, festa del lavoro. Dall’Europa all’Asia, dalle Americhe all’Italia, milioni di persone celebrano ogni anno i lavoratori, ricordando con orgoglio conquiste sindacali come l’orario di otto ore, la sicurezza sul lavoro e il riconoscimento dei diritti fondamentali. Ma dietro questa giornata si cela una storia meno lineare e decisamente più politica.

Tutto ha inizio negli Stati Uniti, il paese che paradossalmente non celebra il Primo maggio, preferendo un più neutrale “Labor Day” a settembre. Eppure, è proprio a Chicago, l’1 maggio 1886, che scoppia lo sciopero che diventerà il simbolo della lotta operaia: gli operai chiedono una giornata lavorativa più umana, di otto ore. Le proteste sfociano nella violenta rivolta di Haymarket, in cui diversi lavoratori vengono uccisi e alcuni anarchici impiccati dopo un processo pieno di ombre. È da quel sangue che nasce la leggenda dei “martiri di Haymarket”.

“I nostri figli ricorderanno che abbiamo lottato per un futuro migliore”, dissero allora alcuni dei protagonisti. La memoria di quel sacrificio venne raccolta nel 1889 dalla Seconda Internazionale socialista, che istituì ufficialmente il Primo maggio come giornata internazionale dei lavoratori, con l’obiettivo di unire la classe operaia mondiale sotto una bandiera comune di diritti e rivendicazioni.



In Italia, la ricorrenza fu accolta con entusiasmo dal movimento operaio, ma fu brutalmente interrotta dal regime fascista. Con un decreto del 1923, la celebrazione del Primo maggio venne sostituita dal 21 aprile, data simbolica della fondazione di Roma, nel tentativo di cancellare ogni traccia di autonomia sindacale e opposizione politica. Il fascismo imponeva così una visione corporativa e centralizzata del lavoro, subordinando i diritti dei lavoratori agli interessi dello Stato e della produzione.

Fu soltanto dopo la caduta del regime e la Liberazione che il Primo maggio tornò ad essere una giornata festiva, grazie a un decreto del 1946 che lo affiancò al 25 aprile. Ma ancora una volta, il sangue macchiò una giornata nata per celebrare la dignità del lavoro. L’1 maggio 1947, a Portella della Ginestra, in Sicilia, un gruppo di contadini venne assalito dalla banda armata di Salvatore Giuliano. L’attacco, ordinato da chi voleva fermare le rivendicazioni dei braccianti contro il latifondo e mantenere lo status quo, lasciò sul terreno 11 morti e 27 feriti. “Volevano solo festeggiare la libertà e la terra”, raccontarono i testimoni. Le violenze si abbatterono poi anche sulle sedi dei partiti di sinistra e delle Camere del Lavoro locali.

Oggi il Primo maggio è celebrato con cortei, concerti e discorsi, ma spesso svuotato del suo significato profondo. In un’epoca di precariato, globalizzazione e crisi dell’industria, il lavoro è tornato ad essere una questione centrale. Ma mentre i sindacati tradizionali sembrano sempre più distanti dalle esigenze concrete dei lavoratori, emerge la necessità di rimettere al centro il valore produttivo e sociale del lavoro, non come strumento di lotta ideologica, ma come fondamento del benessere nazionale.

In un mondo dove la retorica spesso prende il posto dei fatti, forse è tempo di ricordare che il lavoro non è solo un diritto, ma anche un dovere, un pilastro identitario e una leva di riscatto individuale e collettivo. Celebrare il Primo maggio significa anche questo: onorare chi lavora con dignità e chi crede ancora che la libertà economica sia la via per la vera emancipazione.

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