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Alto Adige

Foibe: la storia della famiglia di Teodoro Ghizzi, scappata all’odio dei partigiani titini

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Ogni 10 febbraio ricorre la giornata del ricordo in cui si commemorano le vittime delle foibe e si ricordano gli esuli istriani. Per questa ragione, a livello nazionale, è stato anche istituito il “Comitato 10 febbraio”. Uno dei referenti del comitato a livello regionale è Maurizio Puglisi Ghizzi.

Il motivo del suo impegno nel ricordo della vicenda istriana è da ricercare nelle origini e nella storia della sua famiglia. I parenti da parte di madre di Puglisi Ghizzi erano infatti istriani. Vivevano tra Pola e Fiume e la loro presenza sul territorio risale al 1400. Nonostante la guerra in Ucraina che incombe e tiene banco sui media da oltre una settimana la loro storia merita di essere raccontata per tenere sempre alta l’attenzione su una parte della storia purtroppo drammatica.

I “Ghizzi” insomma, erano in Istria da sempre. La famiglia era benestante. La nonna di Maurizio era figlia del caporedattore de “La Vedetta d’Italia”, un giornale irredentista di Fiume  mentre il nonno era figlio di un funzionario di stato.



Entrambi provenivano da famiglie benestanti ed avevano dei vasti possedimenti. I due, di nome Argene Rack e Teodoro Ghizzi, si erano conosciuti a Fiume frequentando le stesse compagnie e le stesse scuole. Avevano deciso di farsi una famiglia e si sono sposati.

Teodoro, oltre a frequentare l’università, lavorava come dirigente in una petrolchimica. Assieme alla moglie, fra il 1940 e il 1941 ha avuto due figlie che è stato costretto a lasciare quando è scoppiata la guerra.

Teodoro è dovuto partire in guerra nel ’41 come ufficiale di artiglieria. Essendo lui in grado di parlare perfettamente il tedesco è stato scelto come ufficiale di collegamento con la wermacht.

L’ufficiale ha combattuto in Grecia e persino in Russia. L’8 settembre 1943 stava tornando con il suo plotone verso Fiume  con un treno tedesco. Il generale Badoglio, dopo aver rovesciato il governo, aveva schierato l’Italia dalla parte degli alleati.

Gli italiani dunque, sono passati dal combattere dalla stessa parte della barricata tedesca ad essere loro nemici. Tutto da un giorno all’altro e all’oscuro degli italiani.

I tedeschi sono venuti subito a sapere del cambio di schieramento italiano ed hanno preso provvedimenti. Hanno fermato il treno del plotone italiano che stava transitando in Macedonia, hanno disarmato i militari e li hanno deportati nei campi di prigionia.

Teodoro si è rimasto internato per ben 2 anni, passando per 14 diversi campi di concentramento fra la Lituania e la Polonia. In un battito di ciglia infatti, a sua insaputa, era diventato un nemico. Nei campi di prigionia tedeschi il cibo scarseggiava, si dormiva dentro delle baracche di legno ed il lavoro era massacrante.

Teodoro, un uomo alto un metro e 85 per  90 kg, dopo due anni di prigionia pesava poco più della metà rispetto a quando era arrivato. Durante questi anni invece, Argene è rimasta a Fiume. Rimasta sola a badare a due bambine e al fratello piccolo.

La situazione era drammatica. Erano costretti a rimanere asserragliati in casa. La notte erano costretti a buttare olio dalle finestre per evitare che i partigiani si aggrappassero ed entrassero in casa. Vivevano nella paura.

I titini, alleati con i partigiani comunisti, nella notte, facevano infatti i rastrellamenti nelle case, si arrampicavano sulle grondaie ed entravano nelle abitazioni nelle quali sapevano esserci delle famiglie italiane. Le atrocità che avvenivano dopo, sono indescrivibili.

A difendere la città dalle scorribande c’erano i militari tedeschi ed alcuni combattenti della Xª Mas. A loro si erano uniti anche  i partigiani bianchi. I partigiani rossi invece collaboravano con Tito nell’infoibare gli italiani e nel fare pulizia etnica.

Quest’atmosfera di paura è continuata per più di due anni. Il 30 aprile del 1945 i tedeschi si sono arresi. Teodoro si è svegliato in un campo di prigionia in Polonia e, assieme agli altri commilitoni si è accorto di essere libero.

Le porte erano aperte, le guardie assenti. I tedeschi erano scappati. Si è capito che la guerra era finita. L’inferno invece no. Fiume era ancora occupata dai criminali titini.

Teodoro, dopo mille peripezie, con dei mezzi di fortuna, è riuscito a tornare nella sua città. Non si sarebbe mai aspettato di trovarsi davanti una situazione del genere.

Pochi giorni dopo essere tornato dalla sua famiglia, l’uomo, ancora prima di rendersi conto di cosa stesse accadendo, è stato fermato in strada da un gruppo di polizia jugoslava.

E’ stato allora portato di forza nella palestra del liceo classico nel quale aveva studiato da ragazzo. Lì, era stato organizzato un “tribunale del popolo” dove quattro titini, con i mitra spianati, dall’alto di uno scranno, decidevano della vita di decine di persone.

Facevano entrare nella stanza un italiano alla volta e lo processavano in maniera sommaria. Gli parlavano in croato per 5 minuti senza dare alcuna possibilità di replica.

Il giudizio era unanime ed uguale per tutti. I cosiddetti “nemici del popolo”, la cui unica colpa era di essere italiani, venivano portati in cortile e uccisi. Un colpo alla testa era il destino di tutti gli italiani che entravano nella palestra.

Non venivano trucidati solamente gli individui che avevano avuto delle implicazioni con il partito fascista. Venivano uccise anche le persone comuni solo per la loro nazionalità.

Teodoro stava dunque aspettando il suo colpo in testa. Si vedeva già la morte in faccia. Un colpo di fortuna gli ha invece salvato la vita. Quel giorno, qualche “resistente” della X Mas ancora in lotta, ha tirato una granata sulla scuola.

I partigiani si sono dispersi. Teodoro ha visto aprirsi un varco nel cortile ed  è scappato. Dopo essere tornato a casa ha organizzato una fuga rocambolesca. Sarebbe stato impossibile continuare a vivere in città.

Argene, il marito, le due figlie Marina e Mariagrazia, il piccolo Lavinio, fratello di Argene ed alcuni vicini sono fuggiti in fretta e furia. Avevano perso tutto.

I possedimenti non erano più loro e non lo sarebbero mai più tornati. Fortunatamente sono riusciti a scappare in maniera inosservata e ad arrivare in un campo profughi a Trieste.

Di tutte le proprietà e le ricchezze da loro possedute, non erano rimaste che un paio di monete. C’era però stato chi aveva avuto più sfortuna. Molti dei parenti di Teodoro infatti avevano avuto una sorte molto peggiore.

Qualcuno è finito in una foiba, un’insenatura carsica profonda decine, centinaia di metri oppure appeso  con dei ganci da macello fuori dalla porta della propria abitazione. Erano infatti questi i metodi adottati dai titini. E nulla si poteva fare contro un odio così scellerato.

Tutto ciò è accaduto naturalmente sotto gli occhi del governo italiano che non si è mosso minimamente per cercare di salvare i suoi figli in Istria. Dopo l’arrivo al campo profughi di Trieste, la famiglia Ghizzi è stata inserita nelle liste di proscrizione jugoslave.

Veniva quindi loro negato l’accesso in jugoslavia. Nessuno di loro sarebbe più potuto rientrare in patria fino al trattato di Osimo del 1970. La pena era la morte. O meglio, 30 anni di campo di prigionia, che nella maggior parte dei casi si traduceva in morte.

Dopo il 70’ gli esuli istriani sono potuti tornare in patria da visitatori. I loro beni erano stati tutti requisiti. Non aveva nessun diritto sulle loro proprietà.

Nessun diritto sulla loro patria che era stata svenduta. Dopo aver vissuto per centinaia di anni in un posto, generazione dopo generazione, quei pochi istriani sopravvissuti sono tornati a casa loro essendo null’altro che turisti.

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