Cui Prodest
Rossini, un quarantesimo anniversario di importante ricerca su un genio precoce

Tre opere d’età giovanile (1811/12 e 1823, Rossini nasce nel 1792), anche se la parola “giovanile” per Rossini ha un senso speciale: il successo l’aveva reso felice addirittura prima, come semplice compositore e non ancora come operista comico e poi tragico.
Tre opere magistrali, che producono la cifra di questo miracolo italiano, figlio musicale di W. A. Mozart (1756-1791) e di L. V. Beethoven (1770-1827), erede secco del primo e fortunato fratello minore del secondo. Come dire onore in vita e anima rubiconda. Tre opere che segnano il vertice della sua produzione di teatro musicale e del rispettivo genere di teatro musicale dell’epoca.
Talmente grande il risultato che tutti avrebbero un problema a vedere un futuro sempre così gratificante.
Per questo io non credo molto alla depressione di Rossini (o, forse, esaurimento nervoso) che i biografi collocano tra il suo quarantesimo compleanno (1832) e un orizzonte imprecisato: troppo elevato il suo profilo culturale, troppo levigata ma non dandistica la sua immagine, troppo intensa la pratica dei suoi sensi, di cui l’amicizia con Marie-Antoine Carême è conferma, e potremmo continuare.
Pensando alle cognizioni psicoterapeutiche dell’epoca, antecedenti alla psicologia del profondo e alla sua regina, la psicoanalisi freudiana, dubito molto fortemente che i clinici dell’epoca, avveduti appena di psicologismo post-kantiano, possano avere diagnosticato correttamente “depressione” o “esaurimento nervoso”, quanto meno nel senso che gli attribuiamo oggi.
Ma spleen sì, malinconia logica forse pure: lo spaesamento del ribollire di metà XIX secolo, gli eventi perturbanti personali di Gioachino, quali la morte della madre nel ’27, dell’amico Carême nel ’33, del padre nel ’39, dell’anima gemella del periodo fertilissimo e prima moglie Isabella Colbran, un’artista nel senso più nobile del termine, nel ’45, l’amico Gaetano Donizetti nel ‘48.
Ed è proprio il ’42 l’anno nel quale, a Parigi, Baudelaire avviava la stesura dei primi testi di “Les fleurs du mal”, tra cui troneggiano gli “Spleen”, le malinconie. Insomma, se intorno l’aria non era proprio sana, va detto che è capitato a molti geni una sorta di burn-out precoce, dopo un ventennio giovanile di produzione esaltante. Ma Rossini si salva, lasciando il teatro musicale e tornando alla sola composizione.
La sua arte diviene più leggera per lui: dal ’29 (ultimo lavoro operistico, il Guglielmo Tell) al ’59 è un andirivieni, prevalentemente tra Parigi e Bologna, con intervalli altrove, anche al seguito del banchiere Barone de Rotschild, “amico” comune anche a Carême. Diciamolo: un depresso non è mai una buona compagnia, nemmeno se è famosissimo come il maestro pesarese; anche la sua nuova compagna, Olympe Pélissier, una… artista, è tutt’altro che senza pretese; la spiccata mobilità non è una caratteristica dei depressi, e nemmeno un solido e curatissimo appetito e gusto creativo in cucina.
Insomma, qualcuno se l’è inventata, la sua malattia nervosa. E il fatto che abbia seguito terapie documentate ugualmente non convince, visto lo stato della disciplina.
Inoltre, Rossini è conservatore nell’intimo, perché “la bellezza non conosce bandiere salvo la sua stessa” e nel 1948 a Bologna anche Ugo Bassi ne riconosce l’alterità rispetto alla politica, malgrado l’avversione di una parte del popolo che induce Rossini alla fuga: lo inviterà a rientrare nella turrita dal breve auto-esilio fiorentino con un buon testo musicale per la città.
Inoltre, lo schieramento del maestro de “L’italiana in Algeri” rispetto al Risorgimento italiano non è così convincente come quello di Bellini e dell’amico Donizetti, né a maggior ragione come sarà quello di Verdi. La bandiera della bellezza è però neutrale, e sventola in libertà equilibristica nella vita del pesarese, e anche questo equilibrismo è segno di salute.
È dunque significativo per il 40° anniversario del Rossini Opera Festival la scelta di queste tre opere: come aver messo un punto fermo sul grande lavoro operistico del pesarese, prima nella commedia, con “Demetrio e Polibio” e “L’equivoco stravagante”, emblematiche del genio giovane, e poi nella tragedia, con sua maestà (in vari sensi, lei, il capolavoro, il coronamento del genere tragico) “Semiramide”, del genio meno giovane.
Su cui procederemo in allargamento critico nei testi successivi.
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