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Macbeth apre con gloria il Festival Verdi 2018 al Regio di Parma

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La grandezza verdiana ha un ascendente nobile in Trentino: forse non tutti sanno che una delle più importanti strutture mondiali a onore e gloria di Giuseppe Verdi, il più grande dei musicisti e operisti della storia, il “Museo Nazionale Giuseppe Verdi o dell’Opera Verdiana”, è stata realizzata 15 anni fa a Busseto patria del Maestro, da un imprenditore trentino, di Rovereto.

E anche lì, nella stupenda Villa Pallavicino, sede del Museo, appare l’opera “Macbeth” del 1847, scelta per inaugurare il Festival Verdi 2018.



Interessante il Macbeth che ha inaugurato qualche giorno fa il Festival Verdi 2018 e che si è ripresentato il 5 ottobre, per poi replicare l’11 e il 18 ottobre. L’opera è andata in scena nel nuovo allestimento firmato da Daniele Abbado.

Sul podio della Filarmonica Arturo Toscanini, dell’Orchestra Giovanile della Via Emilia e del Coro del Teatro Regio di Parma, il Maestro Philippe Auguin dirige benissimo la partitura, interpretata da un cast con mattatori Luca Salsi (Macbeth), Michele Pertusi (Banco), Anna Pirozzi (Lady Macbeth).

Fu da Firenze che giunse a Verdi la commissione di un’opera da mettere in scena nel 1847: la scelta del Maestro bussetano cadde sullo shakespeariano Macbeth, occasione perfetta per sondare il lato più oscuro dell’animo umano. Ne fu talmente coinvolto che stese egli stesso un canovaccio del libretto e chiamò poi Francesco Maria Piave a finirlo. L’opera andò in scena il 14 marzo del 1847 (è questa la versione presentata al Festival Verdi 2018), a cui il compositore rimise mano, a distanza di quasi 20 anni, per il Théàtre Lyrique di Parigi.

Perché il Macbeth è così interessante? Abbado cita l’amore di Verdi per il teatro shakespeariano e le risonanze tra le due versioni (Firenze, e Parigi molti anni dopo) che mostrano quanto Verdi abbia rinnovato la sua scrittura: argomenti di sicuro centrali, ma non è tutto lì. Nell’opera, ben farcita di tensione ideale per l’Italia unita, la scelta di Shakespeare promuove un elemento importante dell’epoca risorgimentale: il sostegno inglese alla politica di unificazione italiana agli albori. Proporre questa opera (anziché Schiller, in ballottaggio) in una Toscana che si sarebbe presto avviata a una rivolta (anche se rispettosamente incruenta) verso Leopoldo II, già terra molto gradita agli inglesi (vicini al progetto cavouriano di costruzione nazionale italiana) ha un senso preciso.

 Come sempre, però, l’opera del genio parmense è densa di molti altri sensi. Il più importante è l’incontro in Macbeth di una grande temperie: quella della psicologia ottocentesca.

Onore alla radice gaelica di Mac Beth: Beath, figlio della vita interiore. I timidi passi della disciplina psicologica seguirà l’opera verdiana in tutta la metà del XIX secolo e senza dubbio ne è una cifra importante.

Non è però l’albore del messaggio psicanalitico (troppo “austriaco”) che si nota, ma l’impronta di uno dei maestri di Freud: Jean Martin Charcot, neurologo parigino, che aprì la strada verso Pavlov e le neuroscienze, è maestro di Freud, studia l’isteria e l’ipnosi. Il caso clinico di Macbeth nella versione verdiana (e abbadiana…) è un caso psico-morale, ben oltre l’accezione perversa e crudele in Shakespeare.

Non a caso, Abbado opta per scenografie luce/buio, con ombre ed ectoplasmi a ingannare lo sguardo, le movenze dei personaggi son quelle dei sentimenti esacerbati, lo spazio è spesso occupato da ammassamenti umani o zombie, il delirio è presente dietro l’angolo con figure e costumi da Lewis Carroll a Stephen King.

A dire cioè che, quando la regia è arte, inutile che spieghi se stessa: l’effetto che produce è molto diverso dalle intenzioni. E più ricco! Solo qualche appunto: il rallentare di determinati momenti e un lieve senso d’incompiuto nell’animazione della peraltro genialmente semplice macchina scenica. Peccati veniali.

Ottima e impeccabile l’interpretazione vocale di Anna Pirozzi, spesso oltre il pentagramma (grandissima serata per lei, il 5!) e il cuore che batte forte (giustamente!) a Parma per il concittadino Pertusi. Anche Luca Salsi però merita un grande elogio: in certi momenti, il protrarsi dei suoi suoni aveva del soprannaturale.

 Insomma, un grande inizio del Festival. Vediamo come procede, con “Un ballo in maschera”, “Attila” e “Le trouvere”, versione francese del Trovatore, affidato alla grande classe di Bob Wilson.

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