Cui Prodest
Fidelio: l’Opera conferma la centralità del lavoro beethoveniano

Nel “Fidelio”, vedere il genio della musica Ludwig Van Beethoven dedicarsi al Teatro Musicale Operistico, lui così austero, eroico ed esemplare, fa quasi emettere un sorriso di materna comprensione: dunque, anche “lui” apprezzava il divertimento del palcoscenico, i corpi imperfetti che si muovono qua e là a emettere suoni vocali, accanto all’algido ordine militaresco dell’orchestra, di tutti quei perfetti strumenti musicali che la sua epoca gli donava e che lui faceva suonare, con grande coscienza sinfonica.
Beethoven, un supereroe, diremmo oggi, della grandiosa transizione tra il XVIII secolo, quello dell’armonia e della melodia, e il XIX secolo, quello del contrasto e, poi, della dissonanza. Il genio del contrasto, che fa maturare la musica settecentesca nella botte del XIX secolo, con accanto i due giganti dell’evoluzione strumentale: il violino e il pianoforte.
Credo di poter dire che il Fidelio, suo unicum di produzione operistica, sia così importante musicalmente da lasciare il segno del grande tedesco anche nella storia del teatro musicale. La musica è bellissima, e proprio oggi, che abbiamo riflettuto sul ruolo dei grandi compositori nell’evoluzione dell’Opera, vien da dire che Fidelio è proprio l’anello mancante tra l’asse Mozart-Rossini-Donizetti-Bellini e quello Verdi-Wagner-Puccini, a riprova della genialità del suo autore.
Si respira infatti nello spettacolo di Bologna del 15 novembre, ottimamente diretto dalla bacchetta di Asher Fisch, la maturazione della musica tra sette e ottocento molto più che in Rossini o Bellini o Donizetti: Beethoven lascia qui un punto fermo, ed è la prova del suo genio.
Come succede con le grandi innovazioni, egli non se ne avvede, e così i critici e il pubblico coevo, che criticano o disapprovano, mentre il lavoro di Fidelio è già cruciale. Lui lo rimaneggia dopo l’infausto esordio nel 1805, e lo rimette in scena, titubante quasi, nel 1814, con pieno successo, altrettanto inaffidabile, anche se gratificante: l’unica opera lirica del Maestro di Bonn, quasi paradossale, è sufficiente a segnare una rivoluzione…
La storia è incentrata sulla sorpresa di comportamenti femminili volitivi e tattici, in quel tardo settecento: Leonore, moglie di Florestan vittima d’ingiustizia, diviene Fidelio, guardia carceraria, per avvicinare e porre in salvo il marito rapito e ingiustamente gettato in catene nelle segrete di una prigione.
L’azzardo le riesce e nel frattempo, napoleonicamente, i valori del potere mutano e tutti coloro che hanno sofferto la discriminazione e il carcere verranno liberati. Buon per Florestan, che sopravvive, vede il bene trionfare e si ricongiunge alla audace metà.
Non facile, dunque, per una voce femminile aderire alla gamma di bassi da contralto (come Fidelio, mentiti panni maschili), ed esprimere anche giacobini acuti (come Leonore, moglie): Magdalena Anna Hofmann ci riesce benissimo, e gode la sua ovazione in un teatro strapieno.
Florestan (Daniel Frank), bellissima presenza scenica, sembra un po’ discontinuo, ma nulla di grave. Don Pizarro, Rocco e Don Fernando (Landroos, Gallo e Donini) ci fanno riflettere sull’uso della lingua tedesca nell’opera, con tutte quelle gutturali, ma ottengono il risultato.
Qualcuno critica la regia, mentre io trovo che Georges Delnon fa un buon lavoro, mettendo in evidenza gli spazi privati della struttura carceraria, ove Marzelline s’innamora di Fidelio/Leonore, piuttosto che gli ambienti di contenimento e di pena, che un intelligente espediente scenografico di Zwimpfer ricava poi con evidenza su un lato retrattile delle quinte.
Ripeto: nessuna macchia significativa, gran bello spettacolo e ottima l’opportunità di comprendere, nell’unica sua manifestazione, la grande profondità del teatro operistico beethoveniano.
E, dopo lo spettacolo di venerdì 15 iniziato a un ottimo orario, le 18, alle 21 si era già a cena al superclassico ristorante Donatello, a parlare con Katia e Ferruccio Fanciullacci degli artisti che passarono di lì, dal 1905 quando aprì, fino ai giovani tenori rampanti di oggi, come Stefan Pop.
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