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Economia e Finanza

Vincoli, divieti e controlli: gli artigiani dell’agroalimentare soffocati dalla burocrazia

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La burocrazia penalizza uno dei simboli del Made in Italy: le eccellenze artigiane del settore agroalimentare, una delle rare realtà che continua a crescere a dispetto della stagnazione dei consumi.

Il 74% dei Comuni non ha una regolamentazione organizza in tema di consumo sul posto, il 25% ha una regolamentazione ad hoc per gli artigiani. Per ottenere il titolo di esercizio di vicinato servono fino a 20 adempimenti. Il corso di somministrazione alimenti e bevande dura tra le 80 e le 140 ore. I titoli abilitativi per utilizzare gli spazi esterni variano da comune a comune.

Le circolari del Mise che si aggiungono alla normativa esistente sono 33. E quando finalmente si riesce ad avviare l’attività di vendita per il consumo sul posto, l’artigiano è sottoposto ad accertamenti e controlli da parte di 21 soggetti, dal medico veterinario fino alle guardie ecologiche.



Lo rivela l’Osservatorio “Comune che vai burocrazia che trovi” di CNA, presentato oggi.

Gli italiani spendono in un anno 85 miliardi di euro per mangiare fuori casa, circa 1.500 euro pro capite secondo l’indagine condotta da CNA Agroalimentare e CNA Turismo e commercio. Un business dai numeri impressionanti che riflettono un profondo cambiamento negli stili di vita degli italiani negli ultimi anni.

Sono oltre 120mila le imprese del settore di cui il 60,5% artigiane. Quest’ultime mostrano una flessione dello 0,9% dal 2016 mentre quelle non artigiane crescono del 2,5% a conferma di norme discriminanti.

Gli artigiani anche in Trentino Alto Adige – commenta Claudio Corrarati, presidente della CNA regionale – hanno accettato la sfida dell’evoluzione dei consumi alimentari. E qui inizia l’autentica via crucis, provocata da una mancanza di attenzione da parte del legislatore, della macchina amministrativa centrale e periferica.

Leggi, circolari, normative non hanno tenuto conto della riduzione di tempo libero di lavoratori autonomi e dipendenti, né della necessità di contenere i costi della pausa pranzo. Il conto è altissimo per gli artigiani”.

Per scongiurare l’accusa di abusivismo, l’artigiano che sforna pizze in teglia è costretto in genere a ottenere il titolo di esercizio di vicinato, uno strumento giuridico del commercio, per il quale possono essere indispensabili fino a venti adempimenti e 140 ore di corso.

Ma è solo l’inizio di un percorso impervio per l’artigiano che, molto semplicemente, vuole offrire ai propri clienti di consumare sul posto, senza servizio assistito, le bontà del suo laboratorio. C’è una giungla di divieti e prescrizioni incomprensibili: non può mettere a disposizione della clientela sedie e tavoli, ma deve ricorrere a panche, sgabelli, mensole e piani d’appoggio, così come deve fornire solo posate e bicchieri in plastica usa-e-getta. Insomma, l’artigiano è obbligato a rendere scomoda la consumazione.

Un agricoltore che vende al pubblico i propri prodotti, viceversa, può fornire ai clienti perfino posate di metallo, bicchieri di cristallo e tovaglioli di cotone.

Una disparità non secondaria – sottolinea il presidente di CNA Trentino Alto Adige commentando i dati dell’Osservatorio CNA sulla Burocrazia – che penalizza non solo le imprese ma anche, se non soprattutto, i loro clienti. Mentre le burocrazie territoriali rincaravano la dose”.

 “Occorre offrire una definizione di attività prevalente dell’impresa artigiana – aggiunge Corrarati – che, come nel caso dell’impresa agricola, non lasci spazio ad interpretazioni arbitrarie. Attualmente, all’impresa artigiana che opera nel settore alimentare è consentita la sola vendita dei beni propri, mentre anche per poter vedere beni altrui, connotati da accessorietà, nonché consentirne il consumo sul posto, è necessario ottenere il titolo di esercizio di vicinato.

Il criterio di prevalenza dell’attività artigiana su quella commerciale andrebbe strutturato sulla base di oggettivi parametri temporali e quantitativi, quali il maggior tempo impiegato nella produzione e preparazione degli alimenti rispetto alla fase di vendita; il maggior ricavo derivante dalla vendita di prodotti di produzione propria rispetto alla vendita di beni accessori.

Infine aggiornare la legge quadro per l’artigianato, all’interno di un percorso comune con le Regioni, appare un passaggio ineludibile per dare nuovo impulso e rinvigorire una cornice normativa nazionale confinata nel limbo delle leggi inattuate”.

 

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